John Ronald Reuel Tolkien |
A chi scrive par d'uopo riportare anche in questa sede un meraviglioso articolo, firmato da Edoardo Rialti, apparso su "Il Foglio" di qualche giorno fa. Credo che una tale penna sia da ammirare senza remore e possa rappresentare un ottimo insegnamento di giornalismo per ogni lettore. Colui che vi scrive non si ritiene sì abile da offire un affresco nè altrettanto puntuale nè tantomeno migliore di quello dipinto da Rialti stesso e si limita, come sempre, ad un brevissimo commento. Ponga il lettore particolare attenzione alle citate interconnessioni tra "Lo Hobbit" e l'epica norrena e si goda la chiosa finale, firmata da Tolkien stesso; chiosa profonda ed al tempo stesso esilarante, indice della genialità e della immensa cultura del Professore di Oxford, violento schiaffo ad una facies di estrema ignoranza, sempiterno marchio di ogni totalitarismo.
Considerando il grande valore (intrinseco ed estrinseco) dell'articolo in questione e l'età del giornalista, sorge spontanea una risposta ad una ormai inflazionata domanda: davvero i cervelli stanno fuggendo dall'Italia e non c'è possibilità alcuna, per un giovane talentuoso, di emergere? Fortunatamente, no.
(Si ringrazia Daniel Barlow per aver portato detto articolo all'attenzione di chi scrive).
Buona lettura. (L'originale potete trovarlo qui)
14 dicembre 2012 - ore 12:27
Col suo Hobbit, Tolkien ha tenuto testa anche ai razzisti del Terzo Reich
"E’ pericoloso fare previsioni, ma potrebbe rivelarsi un classico”: è con queste parole che l’amico C. S. Lewis concludeva la sua recensione – il 2 ottobre 1937 per il Times Literary Supplement – de “Lo Hobbit” di J. R. R. Tolkien. Sono passati più di settant’anni, e alla prima neozelandese dell’adattamento cinematografico di Peter Jackson, c’erano oltre centomila persone. Una “festa a lungo attesa” – a citare “Il Signore degli anelli” dello stesso Tolkien, che nello scrivere quella che era nata come semplice narrazione della buonanotte per i suoi bambini si trovò per primo esposto e coinvolto in un viaggio narrativo dalle conseguenze inimmaginabili, che vide affiorare nella sua immaginazione un affresco sempre più vasto: “Quella del signor Baggins è iniziata come storia comica fra convenzionali e inconsistenti gnomi usciti dalle fiabe dei fratelli Grimm eppoi è arrivata ai limiti estremi della fiaba – tanto che alla fine perfino Sauron il terribile vi fa
capolino”.
Fu sempre la finezza critica di Lewis a notare come la vicenda del piccolo e comico Hobbit coinvolto nel riscatto del tesoro usurpato dal drago Smaug – il più bel drago letterario che un amante di fiabe abbia mai incontrato, con la sua parlata magnifica e crudele – si facesse pagina dopo pagina sempre più epica e drammatica, tanto che persino il linguaggio si fa sempre più affine a quello delle heimsokn norrene, alle battaglie e al sentenziare nobile e austero delle contese legali nelle saghe antiche come quelle di Njall o Egill – “Vorrei inoltre chiedere quale parte della loro eredità avreste pagato ai nostri consanguinei, se aveste trovato il tesoro incustodito e noi uccisi” – e come, senza mai perdere il suo umoristico contrasto tra la tensione degli eventi e la comica inadeguatezza del suo protagonista, che da buon gentiluomo di campagna inglese si preoccupa spesso di non smarrire il fazzoletto per soffiarsi il naso, “bisogna leggere il libro personalmente
Edoardo Rialti |
E una contesa aspra come quelle che infiammavano i vichinghi, seppure condotta stavolta in punta di penna anziché di spada, aspettava proprio lo stesso Tolkien, e il suo libro, che attirò l’attenzione degli editori tedeschi Ruetten e Loening. Questi si dissero disponibili a intraprendere la traduzione del libro e ad acquistarne i diritti, cosa che non avrebbe significato poco per un semplice professore universitario dalla famiglia numerosa, che aveva già messo le mani avanti sulla possibilità di sottoporlo agli “studi della Disney (per tutte le opere della quale ho un odio sentito)”. La casa editrice tedesca, secondo le leggi del Reich, chiese a Tolkien un certificato o una auto attestazione di razza arisch, cosa che in effetti il suo cognome lasciava ben sperare. La risposta di Tolkien è un piccolo capolavoro. Alla buona creanza – “Grazie per la vostra lettera” – segue una sistematica distruzione filologica [tenga ben presente il lettore la differenza tra STUDIO FILOLOGICO e PROPAGANDA POLITICA; differenza troppo spesso dimenticata e scavalcata, di questi tempi ndr] delle confuse mitologie di Hitler e compagni: “Temo di non aver capito chiaramente che cosa intendete per arisch. Io non sono di origine ariana, cioè indo-iraniana; per quanto ne so, nessuno dei miei antenati parlava indostano, persiano, gitano o altri dialetti derivati”. Fino alla stoccata finale: “Ma se voi volevate scoprire se sono di origine ebrea, posso solo rispondere che purtroppo tra i miei antenati non ci siano membri di quel popolo così dotato”.
Tolkien certamente amava la cultura tedesca e si diceva fiero delle sue origini, ma, se queste dovranno farsi indistinguibili dalla “completa perniciosità e non scientificità della dottrina della razza”, allora mancherà davvero “poco al giorno in cui un nome germanico non sarà più motivo di orgoglio”. Aveva ragione Thorin il re dei nani quando, agonizzante, fissa negli occhi l’impacciato Hobbit Bilbo, che piange perché l’amico, dopo anni di esilio e di lotte, come Mosè o i monarchi scandinavi, si vede scivolare via ciò per cui aveva tanto lottato, e morendo lo conforta: “In te c’è più di quanto tu sappia, figlio dell’occidente cortese”. Era vero: lo Hobbit non aveva tenuto la testa solo a Smaug il Magnifico o alla gara di indovinelli di Gollum, ma anche al Terzo Reich.
di Edoardo Rialti
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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